Non si può non leggere La restanza (Einaudi, 2022) di Vito Teti che con timore e tremore: timore di assistere, inermi, all’abbandono lento, ma inesorabile, dei luoghi che hanno segnato la nostra infanzia, la nostra gioventù; e tremore nel vedere, giorno dopo giorno, trasformare in non luoghi case, strade, chiese, santuari, piazze, edifici storici, ecc., che hanno costellato la nostra esistenza: «Sebbene siano in molti a tornare o a restare con l’intenzione di arrestare il declino e di creare qualcosa di nuovo, questi luoghi continuano a svuotarsi e a conoscere gli effetti devastanti dello spopolamento» (pp. 27-28).
E come nel dipinto del 1897 di Paul Gauguin “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, il saggio di Teti ci costringe a porci questi ineludibili interrogativi. Alla domanda “chi siamo?”, Teti risponde: noi «siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto» (pp. 21-22). Ma da dove veniamo? Non da minuscoli e insignificanti travagli di paesi posti in cima a dei cocuzzoli di case, ma da un «complesso di architetture, di strade, vicoli, case»; da «una trama di relazioni, vissuti e pratiche sociali interrelate» (p. 46). E il “dove andiamo?” è inestricabilmente legato al “da dove veniamo?”: la memoria è fondamentale, imprescindibile.
Chi ha scelto di restare o chi decide di tornare non può vivere in un mondo perduto, in un “Eden evaporato”, ha bisogno «d’inventare il villaggio, le origini, la piccola patria come luogo di una diversità da recuperare, di una superiorità da ostentare», perché «i paesi non si rigenerano con gli slogan, con proposte estemporanee», e non servono le soluzioni facili: «Riabitare significa costruire comunità, creare le condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuol restare, per accogliere chi ha maturato la scelta della vita da paese» (p. 49). Soprattutto, ci mette in guardia Teti, bisogna evitare “le logiche neomoderniste”, applicate in modo selvaggio e insensato. Ciò che occorre è uno sguardo lungimirante, accompagnato da un amore profondo, da un atteggiamento amorevole, e da uno sguardo “superficiale”, o “interessato”. «A questo scopo», scrive Teti, «risultano evidenti la ridondanza mediatica e il disvalore ideologico di enti inutili, convegni sterili, slogan banali, iniziative effimeri e clientelari, cementificazioni; quando, invece, occorrono «una visione unitaria del territorio, un’opera di restauro e di risanamento, una progettualità innovativa, aperta, mirata». Io penso che in queste parole ci sia la grande lezione di vita di Teti sia per chi si ostina a restare sia per chi ha desiderio di tornare.